Avevo 19 anni quando sposai mio marito in Albania, lui ne aveva 34 e le nostre famiglie avevano concordato le nostre nozze fin da quando io ero una bambina.
A 25 anni avevo già tre figli. Mio marito lavorava in Italia e tornava quando poteva. Io mi occupavo dei bambini con l’aiuto dei nonni e con i soldi che lui mi mandava dall’Italia. A un certo punto decise che dovevamo raggiungerlo e la nostra vita cambiò improvvisamente.
In Italia stavamo in una casa molto piccola, all’inizio eravamo entusiasti del grande cambiamento, intorno a noi tutto ci sembrava bellissimo. Io ero curiosa di conoscere la città, la gente del posto, volevo fare amicizia e inserirmi con i miei figli nel nuovo ambiente.
Anton però non era d’accordo.
Cominciò a controllarmi e a impedirmi di fare le cose più banali. Io volevo essere autonoma come mamma, accompagnare i bambini a scuola (era molto vicina, potevamo andare e tornare a piedi) ma lui diceva che era rischioso, che avrebbero potuto importunarmi e così, quando lui faceva il turno del mattino e non c’erano alternative, mi lasciava andare ma dovevo sempre avere con me il telefono: aveva installato un’applicazione con cui poteva sempre sapere dov’ero… “per proteggerti”, mi diceva, ma io mi sentivo a disagio. Inizialmente non mi piaceva perché mi sembrava che mi considerasse un’incapace… quando poi cominciò a controllarmi ossessivamente, capii che c’era qualcosa d’altro.
Chiacchierando con le altre mamme davanti alla scuola e con l’aiuto di alcune connazionali, già in Italia da anni, stavo cominciando a imparare qualche parola di italiano e facevo amicizia. I bambini venivano invitati dagli amichetti, ma io non potevo assolutamente portarli, soprattutto se non erano albanesi, perché Anton diceva che erano tutti stupidi.
Non potevo nemmeno uscire per fare la spesa senza di lui e quando andavamo insieme controllava quello che mettevo nel carrello e, se non gli andava, non me lo faceva comprare.
Piano piano mi impedì di fare qualsiasi cosa. Se c’erano delle necessità, delle cose da fare quando lui era al lavoro, dovevo chiamarlo e rimanere in linea tutto il tempo, in modo che lui sapesse sempre cosa stavo facendo.
Rimasi incinta del quarto figlio e stavo male, avevo bisogno di cure mediche, ma lui si rifiutava di accompagnarmi perché al consultorio c’era solo un ginecologo uomo. Un giorno provai a insistere e arrivò il primo ceffone.
Da allora la situazione precipitò. Cominciò ad accusarmi di volerlo lasciare, di avere un altro uomo. Diceva che aveva fatto male a portarmi in Italia, che gli avevo rovinato la vita. Mi incolpava per qualsiasi cosa: se i bambini si sporcavano, se arrivavamo in ritardo a scuola, se la cena non era come lui voleva. Non potevo assolutamente parlare italiano e non potevo vedere nessuno. Non faceva che ripetermi che non valevo nulla, che ero una pessima moglie, che pensavo solo ai figli e comunque non li sapevo gestire.
Io cominciai ad avere davvero paura di lui. Evitavo di chiedere, di dire qualsiasi cosa che potesse farlo accendere.
Un giorno però, ero già di sei mesi, gli chiesi di accompagnarmi in ospedale perché avevo delle perdite di sangue. Lui si arrabbiò, cominciò a gridare… Avevo paura di lui ma temevo di perdere il bambino e provai ad insistere… Mi spinse in terra e mi prese a calci e pugni, anche sulla pancia. Quando si rese conto di ciò che aveva fatto, mi portò al Pronto Soccorso.
Lì parlai con una dottoressa che, intuendo quello che stava succedendo, mi fece accomodare in una stanza, lasciando fuori mio marito: con molta delicatezza mi mise a mio agio e riuscii a confidare le violenze subite. Mi spiegò che c’era la possibilità di essere accolta in una casa segreta con i miei figli, che saremmo stati al sicuro e liberi di progettare il nostro futuro con l’aiuto di operatrici qualificate. Chiamammo i carabinieri, ascoltarono la mia storia e mi consigliarono di sporgere una querela nei confronti di mio marito; la legge consentiva di chiederne l’allontanamento da casa e nel frattempo avrei potuto stare nella casa protetta.
Il mio quarto figlio è nato tre mesi dopo, sano e bello. Io e i suoi fratelli abbiamo deciso di chiamarlo Libero.